Da anni, in silenzio e lontano dai riflettori, si ripete una realtà che non può più essere ignorata: persone in fuga da guerre, miseria, persecuzioni e disastri ambientali affrontano il mare aperto, nella speranza di iniziare una nuova vita. Le rotte si fanno sempre più insicure, le possibilità legali sempre più scarse, mentre il linguaggio si irrigidisce e l’opinione pubblica si abitua. Nel vuoto lasciato da decisioni rinviate o non prese, resta lo spazio dell’intervento civile: nelle stesse acque, c’è chi sceglie di salire a bordo per incontrare queste persone. Non per fermarle, ma per salvarle. Un’azione silenziosa, spesso solitaria, che prova a mettere tra la vita e la morte almeno una possibilità in più, nello spazio risicato di un tempismo cruciale. Operare in mare aperto significa affrontare la fatica, la tensione, l’incertezza. Significa agire in contesti fragili, dove la sorte può rovesciarsi in pochi secondi. Significa, anche, fare i conti con una realtà politica più ampia, in cui l’Europa continua a delegare la gestione delle frontiere a Paesi terzi e a trattare la mobilità umana come un problema da contenere, piuttosto che una responsabilità da condividere.
Nella solitudine più amara, questi volontari scelgono di esserci. Di restare umani. Questa serie fotografica, curata da Chiara Generali e scattata tra marzo e aprile 2025, propone una sintesi di quanto accaduto a bordo della Humanity 1, una nave umanitaria attiva nel cuore del Mediterraneo, nel corso della sua 18esima missione. Il punto di vista è quello di chi si è trovato dalla parte di chi vuole tendere una mano, e tenere stretta la presa.